Sempre a chiederci perché

È tristemente ironico leggere come in queste ultime settimane il mondo, e soprattutto la Gen Z, abbia “scoperto” la questione israelo-palestinese. Questa, come le tante altre situazioni critiche sparpagliate per il mondo (Kosovo, Taiwan, Kurdistan, Cecenia, Corno d’Africa etc.), sono così invisibili a milioni di persone ingabbiate nello scrolling di ricette e gattini che poi, quando esplodono, creano un clamore basato anzitutto sulla sorpresa. “Ah ma quindi non viviamo tutti in pace e democrazia?”, “Ah ma le guerre non sono quelle mondiali del ‘900 o prima ancora?”, “Ah ma perché esiste ancora chi ce l’ha con gli ebrei?” (si, ho sentito anche questa). È davvero rabbrividente vedere pagine di approfondimento giornalistico più votate ad un pubblico giovane che anzitutto devono partire da “dove si trova Israele”, “che cos’è la Palestina”, mettendo poi tutto condensato in un video di un minuto quasi 80 anni di odio reciproco, guerre, morti e crisi internazionali, con l’inevitabile risultato di fare più danni dell’ignoranza stessa. Pensare di aver capito, infatti, e per questo sentirsi in diritto di esprimere il proprio parere, manifestare, dare sentenze o (peggio) tifare per l’una o l’altra fazione, è molto più problematico del non saperne niente, fregarsene e continuare la propria vita.

L’unica cosa che ha infatti messo d’accordo tutti gli opinionisti, scienziati, giornalisti politici ed esperti vari, è che il più grande problema attuale sia “logica da stadio”, ovvero avere un’opinione pubblica che, invece di porsi delle domande, risolve la cosa parteggiando per l’una o l’altra fazione, in attesa poi dei prossimi risultati trasmessi da radio o tv. Un 90° minuto bellico, insomma. La questione, invero, dovrebbe partire dal chiedersi chi abbia alimentato questa visione dualistica del mondo (e la risposta è facile: gli stessi mass media che oggi la criticano) e soprattutto chi potrebbe e dovrebbe avere la responsabilità che questo non accada. E si ritorna sempre lì: la scuola. I ragazzi sono decenni che studiano (male) la Storia, facendo dei salti enormi che manco Marty McFly con la DeLorean ed arrivando a fine ciclo con quasi sempre le ultime 150 pagine di libro non studiate “perché poi non c’era tempo, la prof col programma si è fermata alla Seconda Guerra Mondiale”. Il conflitto arabo-sionista è figlio di quella scapestrata pace post ’45, le attuali dinamiche interne all’Unione Europea sono il prodotto di quegli anni, la stessa guerra in Ucraina ha radici lì, e migliaia di altre situazioni e questioni all’ordine del giorno provengono da quanto accaduto nell’ultima metà del ‘900. Storia, Geografia e Filosofia sono materie sempre più fantasma nei piani educativi dei nostri giovani, che – allorquando e laddove ancora vengono insegnate – finiscono per essere null’altro che un insieme di nomi e date messe una dopo l’altra, senza né contesto né dialettica, procedendo con enormi forzature sulla più comprensibile logica causa-effetto. “Tizio ha fatto questo, e quindi Caio ha risposto così. Allora Tizio ha fatto quest’altro, e Caio ha reagito. Poi Sempronio si è unito a Tizio, quindi Caio ha agito di conseguenza…”, chi di voi dovesse averne la possibilità, provi ad ascoltare un’interrogazione di Storia del Liceo, sembrano telecronache alla Fabio Caressa.

Se non torniamo a chiederci il perché delle cose, e soprattutto se non insegniamo ai nostri figli a porsi tante domande e ad analizzare ogni situazione sotto tutti i punti di vista, senza cercare la verità assoluta ma capendo le posizioni delle parti in causa per poi sviluppare un proprio parere che, tuttavia, deve essere sempre inteso come soggettivo e passibile di svariate modifiche, avremo perso in partenza. E così come le squadre che perdono partita dopo partita retrocedono, le società che perdono ogni occasione di crescita regrediscono, dimenticandoci di tutto, e per prima cosa, della necessità di chiederci il perché.


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